In questi giorni, sulla facciata della chiesa di San Babila nel centro di Milano, a copertura del cantiere per i lavori di restauro, fa bella mostra di sé un maxi-poster pubblicitario di un noto stilista con immortalate quattro modelle. Lungi dal volerne fare un discorso moralista, considerato oltretutto che le figure femminili sono più vestite di quanto in genere non accada in questi casi, sono due gli aspetti che colpiscono in questa vicenda. Il primo è l'invadenza con la quale il mercato si è insinuato all'interno della nostra società, al punto da riuscire ad occupare tanto la dimensione temporale della nostra vita, quanto quella spaziale. Un sistema fondato sul consumo fine a se stesso e non più correlato necessariamente ai bisogni, tende a cannibalizzare il nostro tempo e gli spazi dove viviamo. La libertà di vivere il proprio tempo e il proprio spazio possono infatti generare una consapevolezza di sé e dei propri reali bisogni, tale da trasformare un consumatore in un individuo. Lo stordimento pubblicitario mira proprio a confonderci, a farci credere indispensabili per la nostra esistenza cose che non lo sono. In quest'ottica una chiesa, un monumento diventano spazi come tanti altri, da poter occupare e sfruttare, un altro cerchio che viene chiuso attorno a noi e alla nostra capacità di elaborare un modello di vita diverso. L'altro aspetto che impressiona è la passività con la quale accettiamo questo meccanismo pervasivo, la naturalezza con la quale si può ricoprire di pubblicità un luogo di culto, un monumento storico, un'opera d'arte, una strada senza che nessuno protesti o si indigni. Per il mercato tutto ha un prezzo, ma ci sono cose che dovrebbero avere un valore troppo grande per noi, per accettare che ci siano comprate.
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